Riprendiamo il discorso, già intrapreso qualche mese fa in un mio editoriale, sulla Comunicazione di esercizio della pesca sportiva.
Ma voglio affrontarlo da un altro punto di vista, prendendo spunto dai commenti, le voci e le considerazioni lette in rete.
La natura di quel che si legge è decisamente molto critica, spesso anche con toni un pò sopra le righe, voce di una “categoria” che si sente minacciata della privazione dei propri diritti sospettando che quest’obbligo rappresenti la scusa per costringerci a pagare una licenza.
Diciamo che, nell’interpretazioni di molti, questa comunicazione potrebbe essere un modo per vedere certamente sì quanti siamo, ma per capire soprattutto se siamo un numero sufficiente tanto da essere un “boccone” appetibile e quindi conveniente da tassare …
Da qui a passare al ragionamento successivo che è meglio non registrarsi, per “sembrare di meno” il passo è brevissimo; pensiero figlio delle stesse menti che non dichiarando i tonni imbarcati pensano di ritardare la chiusura della stagione del prelievo.
Segno che, nella convinzione di molti, essere furbi possa essere più utile che essere intelligenti.
Il problema è che se alla furbizia si aggiunge anche l’ignoranza, un po’ spocchiosa, delle regole, il binomio si fa esplosivo e dannoso per tutta la categoria.
Il complottismo serpeggia ovunque e in molti si vedono minacciati da pericoli incombenti.
Ma nel nostro caso io penso che chi prevede chissà quali tasse da pagare, probabilmente è più preoccupato dal perdere uno status che dall’onere economico.
La Comunicazione di esercizio della pesca, una volta più noto come “censimento” ha lo scopo di capire quanti sono i pescatori in mare, senza costi ma con il crisma dell’obbligatorietà.
Obbligatorietà la cui inadempienza non è sanzionata in nessun modo
Lo scopo è ovvio che è di controllo, ma oltre a capire quanti siamo serve anche a quantificare l’impatto sullo stock ittico oggetto della pesca ricreativa.
Uno scopo, alla fine, più che condivisibile.
Non si capisce, però, tanta riluttanza da parte degli appassionati rispetto a qualsiasi azione che possa vagamente assomigliare ad un controllo, come se pescare in mare, meglio se senza rispettare regole, fosse un diritto acquisito per nascita.
In barba a tutte le altre categorie che pagano una licenza per effettuare un prelievo che sia di pesci in acque interne piuttosto che di selvaggina.
Con limiti e regole che esistono anche per chi raccoglie gli asparagi selvatici o la cicoria, che crescono spontanei e il cui stock non è in crisi.
Nell’immaginario collettivo dei pescatori chissà perché il pesce è “res nullius” ovvero cosa di nessuno per cui se ne può approfittare senza regole.
Nessuno invece pensa che sia interesse di ciascuno di noi che tutti facciano questa comunicazione perché solo numeri alla mano si può valutare quanto è importante e quanto conta il popolo di pescatori.
In moltissimi paesi del mondo la pesca è regolamentata e soggetta ad una “licenza”: parola che in italiano esprime proprio il concetto di permesso, facoltà ..
E una licenza non deve essere vista solo come un balzello, ma come la ratificazione di un diritto ed il raggiungimento di un traguardo.
Perché oggi ancora non sappiamo quanti siamo e ne possiamo far conto su un riconoscimento giuridico che ci identifichi come una categoria.
Un milione e più di pescatori sono un numero importante e rappresenterebbero un peso non trascurabile nelle dinamiche della pesca.
Certo che avere dei diritti significa anche osservare doveri e regole: sarà forse questa la paura?