Editoriale

L’editoriale di Aprile

La pesca, praticata sia in acqua dolce che in mare è suddivisa in due grandi famiglie, quella professionale e quindi esercitabile con una iscrizione alla camera di commercio ed una licenza e quella amatoriale.

Quest’ultima, a sua volta viene identificata in due rami: pesca sportiva e pesca ricreativa.

E’ pesca sportiva quando a esercitarla sono pescatori iscritti ad una associazione/federazione che pescano nell’ambito di una competizione.

La pesca ricreativa invece è quella che si pratica per divertimento, senza alcuna appartenenza e dove il prelievo di pesce, è (o dovrebbe essere) destinato esclusivamente al consumo personale, con regole e limitazioni ben precise.

Detta così sembrerebbe un discorso semplice, lineare privo di criticità.

Da come vedo che vanno le cose nella pratica, ma è una mia personale convinzione, la connotazione che si delinea invece sta virando verso una realtà dalle sfumature distopiche.

Nel terzo millennio parlare di pesca sportiva e di gare, a maggior ragione se non sono del genere no kill, è un po’ anacronistico,

Davvero è difficile dare dei connotati sportivi ad una attività che non ha alcuna caratteristica che la identifichi nell’ accezione più classica del termine “sport”.

Diciamo che in una gara di pesca dovrebbero eccellere le competenze ma è difficile poterlo fare a discapito dello stock ittico, soprattutto se il prelievo è irreversibile come nella pesca subacquea o nell’altura, tanto per citare le tecniche che mi vengono prima in mente.

Catturare più pesce per dimostrare maggior capacità del proprio avversario seppur riconducibile al concetto agonistico in realtà lo identifica poco, soprattutto perché in mezzo non c’è un avversario paritetico che si confronta sullo stesso campo o sulla stessa pista o nello stesso ring.

Ci sono condizioni ”biologiche e ambientali ” diverse, che possono decretare una vittoria a dispetto di concorrenti molto più esperti.

Forse qualcosa andrebbe ripensato, se si vuole rendere sostenibile ancora l’agonismo con una pratica del rilascio più radicata ma soprattutto ratificata da metodi e regole che tutelino la sopravvivenza dei pesci.

Anche la pesca ricreativa meriterebbe un esame più attento e realistico.

L’implemento di sofisticatissima tecnologia a portata di tutti ha reso i pesci decisamente più vulnerabili in senso lato.

Scandagli iperprestazionali, motori elettrici che consentono di gestire l’imbarcazione in modo automatico, fino ai droni per portare le esche lontano da riva, invece di lanciarle ci sta ponendo in una situazione in cui la pesca non è più tale, non è più esercizio “ricreativo” e simulazioni delle nostre ancestrali abitudini di cacciatori, bensì di ottusi predatori che hanno sostituito le capacità con la tecnologia.

La pesca, ricreativa, o meglio quella che io chiamerei “pesca vera” è il gusto del cimento ancor più che del prelievo.

Andare a pesca, da un molo, da una spiaggia o da una barca significa saper leggere il mare e non accendere uno strumento e calare un boccone invitante sopra la verticale di un pesce o farci portare le esche oltre le onde da una macchina volante e nemmeno farci stare con la barca fissi sul branco di pesci grazie ad una tecnologia prossima più ad un ordigno da guerra che da pesca.

Perché così non è neanche “vincere facile”