La pesca è una passione irrefrenabile, qualcosa che ti prende da dentro e ti trascina letteralmente, qualcosa di cui non si riesce a fare a meno, che va oltre, quasi come una dipendenza.
Capire quale sia il meccanismo che scatena tutto ciò però è difficile, anzi credo che sia impossibile.
In tanti anni di pesca in mare, praticata in tutte le sue declinazioni, non sono riuscito ancora a scoprire cosa scateni quella necessità irrefrenabile che mi fa perdere il sonno e mi emoziona ogni volta come fosse la prima.
Sarà l’ansia dello strike la nostra droga, saranno le emozioni dell’attesa che tengono alti i valori delle endorfine che sostengono la nostra maniacale passione?
Eppure, almeno per le esperienze di chi scrive, nella sua complessità di emozioni è una passione semplice che trova appagamento, sebbene temporaneo, nell’azione di pesca e non solo nello strike e nell’azione di prelievo.
Perché poi, a conti fatti, quel che conta è il confronto, l’azione di pesca ed il suo contorno, o almeno questo è quel che penso.
Ovvio che se poi si concretizza una cattura, il cerchio si chiude in modo perfetto ed il passo successivo sarà la giusta santificazione in tavola.
Ma sarà così per tutti o, come mi viene da credere, molti sono schiavi del “lato oscuro” della pesca?
Se il fine è il prelievo ed è solo nella sua azione ripetuta che il pescatore trova il suo appagamento allora non è pesca, ma predazione, per altro non giustificata da ciò che in natura la genera che è la necessità alimentare.
Non credo che la misura di un pesce decreti la bravura del pescatore ed ancor meno la quantità, perché, come ho detto più volte, essere pescatori capaci non significa prenderne tanti quando capita, ma prenderne uno tutte le volte.
Purtroppo a guardar bene, il profilo di molti appassionati invece ci racconta il contrario, svelando che la passione troppo spesso lascia il passo ad una diabolica smania di prelievo da mostrare in pubblico.
Prelievo, spesso non solo oltre le regole ma oltre l’etica ed il buon senso che comunque oltre ad essere dannoso all’immagine della pesca lo è, malgrado quel che se ne dica, anche per lo stock ittico di quella porzione di territorio.
Questa non è pesca ricreativa e soprattutto non è una pesca al passo con i tempi in cui la logica del prelievo dovrebbe essere quella della sostenibilità.
Ma cosa fare per cambiare il trend?
Sicuramente cambiare le regole, attualizzandole alla situazione di pesca del nostro millennio.
Cambiare le regole significa badare alla sostenibilità ma anche tenere conto alle esigenze della categoria.
La pesca deve essere trasformata in una risorsa e il pesce deve essere considerato patrimonio del territorio al pari di quello artistico, culturalie o agro-alimentare.
Ma proprio per questo anche severamente tutelato, il che significa un cambio di passo che può avvenire anche in un cambiamento profondo ed evoluto dei controlli.
Insomma nei miei pensieri e nel mio immaginario c’è il desiderio di un nuovo assetto delle politiche del mare, soprattutto più intelligente e moderno.
Magari ve lo racconterò nel prossimo editoriale.